Tornai al tavolo anatomico, e controllai di nuovo le radiografie del sacco numero due. Non vidi niente di sospetto, così sciolsi il nodo che lo chiudeva e rovesciai il contenuto sul tavolo.
Uno spezzatino di ossa, sedimento e carne in decomposizione si sparpagliò sul tavolo di acciaio inossidabile, diffondendo nella stanza un tanfo insopportabile.
Mi sistemai la mascherina, e iniziai a studiare ciò che avevo davanti.
Altro orso.
Poi sollevai un osso lungo ma piccolo che chiaramente non poteva appartenere a un orso. Era leggero. Notai che l'involucro esterno era sottile, la cavità midollare sproporzionatamente grande.
Uccello.
Iniziai a separare i due tipi di ossa.
Ursus.
Volatile.
Il tempo passava. Le spalle cominciavano a indolenzirsi. A un certo punto udii il telefono. Tre squilli e poi silenzio. Forse aveva risposto Hawkins, o forse il servizio automatico.
Dopo aver separato le varie parti per affiliazione tassonomica, iniziai l'inventario delle nuove ossa di orso. Anche in questo caso, non trovai né teste, né artigli, né pelle né pelliccia.
Un'ora dopo, il conto degli orsi era salito a sei.
Mi sedetti per qualche secondo a riflettere.
Chissà se la caccia all'orso nero era legale, in North Carolina. Sei esemplari erano tanti. Possibile che non ci fossero dei limiti? Quei resti erano il risultato di un massacro, oppure erano la somma di più battute di caccia? La non uniformità dello stato di decomposizione confermava la seconda ipotesi.
Ma perché sei carcasse senza testa erano state chiuse nei sacchi per l'immondizia e sepolte nel bosco? Gli orsi erano stati uccisi per la pelliccia? Le teste erano state conservate come trofei?
Esisteva una stagione per la caccia all'orso? La battuta si era svolta nel periodo consentito? Quando? Era molto difficile stabilire con esattezza da quanto tempo erano morti quegli animali. Prima dell'arrivo di Boyd, la plastica aveva funzionato come un'efficace barriera contro gli insetti e gli animali saprofagi, quelli che si nutrono di carogne, che in genere accelerano il processo di decomposizione.
Stavo per occuparmi delle ossa di uccello, quando udii delle voci provenire dal corridoio. Mi fermai per ascoltare.
Joe Hawkins. Una voce maschile. Di nuovo Hawkins.
Senza togliermi i guanti e tenendo le mani sollevate, spinsi la porta con le anche e sbirciai fuori.
Hawkins e Tim Larabee stavano parlando fuori della sala di istologia. Larabee sembrava agitato.
Feci per tornare al mio lavoro, ma Larabee mi vide.
«Tempe. Sono contento che tu sia qui. Ti ho chiamata al cellulare.» Indossava un paio di jeans e una camicia con il colletto e i polsini neri. Aveva i capelli bagnati, come se fosse appena uscito dalla doccia.
«Non mi porto la borsetta in sala autopsie.»
Larabee spinse lo sguardo oltre la porta, sul tavolo anatomico.
«Sono i resti che avete trovato vicino a Cowans Ford?»
«Sì.»
«Animali?»
«Direi di sì.»
«Bene. Perché ho bisogno del tuo aiuto per un altro caso.»
Oh, no.
«Ho ricevuto una telefonata dal Dipartimento di polizia di Davidson. Un piccolo aereo è precipitato poco dopo mezzogiorno.»
«Dove?»
«A est di Davidson, proprio nel punto in cui la contea di Mecklenburg confina con Cabarrus e Iredell.»
«Tim, ascolta, sono molto...»
«L'aereo si è schiantato contro una parete di roccia, e poi si è incendiato.»
«Quante persone a bordo?»
«Non è chiaro.»
«Non può aiutarti Joe?»
«Se le vittime sono bruciate e segmentate, ci vorrà un occhio molto esperto per individuare le varie parti.»
No, non poteva succedere proprio adesso.
Controllai l'ora. Le due e quaranta. Novanta minuti all'atterraggio.
Larabee mi fissava con grande intensità.
«Devo mettere in ordine di là e fare qualche telefonata.»
Riconoscente, Larabee mi strinse un braccio.
«Sapevo di poter contare su di te.»
Vallo a raccontare al tenente che tra un'ora e mezza dovrà cercarsi un taxi. Da solo.
Sperai di riuscire a tornare a casa prima che si fosse addormentato.
6
Alle quattro del pomeriggio, la temperatura aveva raggiunto i trentasei gradi, e l'umidità aveva superato il novanta per cento. Una vera pacchia per i fanatici dei record.
Il luogo dell'incidente aereo si trovava a circa un'ora di strada a nord della città, all'estremità nordorientale della contea. Diversamente dalla zona del Lago Norman, a ovest, più turistica, questa parte della contea di Mecklenburg era tutta campi di granturco e di soia.
Joe Hawkins era già sul posto, quando Larabee parcheggiò la sua Land Rover. Hawkins stava fumando un cigarillo, appoggiato alla portiera di un furgoncino.
«Dov'è precipitato l'aereo?» domandai, infilandomi lo zaino sulla spalla.
Hawkins indicò un punto con il suo cigarillo.
«È lontano da qui?»
«Circa duecento metri.»
Mentre attraversavamo i campi di mais, Larabee e Hawkins con la cassa delle attrezzature e io con il mio zaino, eravamo affannati e zuppi di sudore.
Pur se a ranghi ridotti, la squadra consueta era presente. Poliziotti. Pompieri. Un giornalista. Abitanti della zona, che assistevano al recupero come turisti su un pullman a due piani.
Qualcuno aveva già circondato la carcassa dell'aereo e la zona circostante con il nastro giallo usato in questi casi. Osservando da lontano, le ridotte dimensioni della zona delimitata mi colpirono.
Due autopompe dei vigili del fuoco aspettavano fuori dal nastro giallo, con le ruote coperte da rimasugli di piante di mais. Adesso erano fermi, ma mi accorsi che sulla carcassa dell'aereo era già stata rovesciata parecchia acqua.
Il che non era affatto positivo per la localizzazione e il recupero delle ossa carbonizzate.
Un uomo con la divisa del Dipartimento di polizia di Davidson sembrava la persona responsabile dei rilevamenti. Un distintivo d'ottone sulla camicia diceva WADE GULLET.
Larabee e io ci presentammo.
L'agente Gullet - occhi neri, mascella squadrata, naso aquilino, capelli brizzolati - era un vero leader. A parte il fatto che non superava il metro e cinquantacinque.
Ci stringemmo la mano.
«Sono contento di vederla, dottore.» Poi annuì verso di me. «Di vedervi.»
Il medico legale e io ascoltammo il rapido resoconto di Gullet, ma le sue informazioni non aggiunsero granché a ciò che Larabee mi aveva già detto davanti alla sala autopsie.
«Il proprietario di questo terreno ha chiamato all'una e diciannove per dire che, guardando fuori dalla finestra del soggiorno, aveva visto un aereo volare in modo strano.»
«Volare in modo strano?» domandai.
«Sì, volava molto basso, e ondeggiava da una parte all'altra.»
Guardai oltre la testa di Gullet, e stimai l'altezza della parete rocciosa che si alzava in fondo al campo. Non poteva essere più alta di settanta metri. Notai delle strisciate rosse e blu a circa cinque metri dalla cima. Una scia di vegetazione bruciata portava dal punto di impatto fino alla carcassa dell'aereo.
«Il tizio poi ha sentito un'esplosione, è corso fuori e ha visto una colonna di fumo alzarsi verso nord, e quando è arrivato sul posto, l'aereo era precipitato e stava bruciando. L'agricoltore...»
Gullet consultò un taccuino a spirale.
«Michalowski non ha visto segni di vita a bordo, così è corso a casa per chiamare il pronto intervento.»
«Qualche idea di quante persone erano a bordo?» domandò Larabee.
«Si direbbe un velivolo a quattro posti, quindi penserei a un gruppo inferiore alle sei persone.»
Gullet poteva competere con Slidell nell'imitazione dei poliziotti televisivi.
Abbassò la copertina del taccuino con un movimento della mano che lo reggeva, e lo ripose nel taschino della camicia.
«Abbiamo già avvertito la FAA e anche l'NTSB, e tutti gli organismi che i federali vogliono che contattiamo. Tra i miei ragazzi e i vigili del fuoco, credo che riusciremo a occuparci di tutto. Dovete solo dirmi di che cosa avete bisogno.»
Avevo notato un paio di ambulanze parcheggiate sulla collinetta dove avevamo lasciato la Land Rover.
«Avete avvisato un ospedale?»
«Abbiamo allertato il CMC di Charlotte. I paramedici e io abbiamo dato un'occhiata appena l'incendio è stato domato.» Gullet scosse la testa. «In quel casino non c'è rimasto nessuno in grado di respirare.»
Mentre Larabee iniziava a spiegare come avremmo proceduto, diedi un'occhiata all'orologio. Le quattro e venti. Ora stimata per l'arrivo a casa mia del mio visitatore.
Sperai con tutto il cuore che avesse ricevuto il messaggio con cui lo avvisavo del mio ritardo. E che avesse trovato un taxi senza troppi problemi. E che avesse trovato la chiave che avevo pregato Katy di attaccare con il nastro adesivo alla porta della cucina.
Sperai che Katy avesse attaccato la chiave alla porta della cucina.
Rilassati, Brennan. Se ha qualche problema, di sicuro telefonerà.
Controllai il telefono cellulare. Non c'era campo.
Accidenti.
«È pronto per un sopralluogo?» Gullet domandò a Larabee.
«Non ci sono ancora dei focolai?»
«No. L'incendio è stato domato ovunque.»
«Bene. Faccia strada.»
In quel momento detestai il mio lavoro, tuttavia seguii Gullet e Larabee fino alla zona delimitata dal nastro giallo, vicino ai rottami dell'aereo.
Da vicino, il velivolo aveva un aspetto migliore che da lontano. Nonostante fosse accartocciato e bruciato, notai che la fusoliera era pressoché intatta. Intorno a essa, vidi i rottami contorti di un'ala, plastica fusa e un insieme di detriti irriconoscibili. Minuscoli cubetti di ghiaccio scintillavano come fosforo nel sole del pomeriggio.
«Ehi, salve!»
Il suono di quella voce ci fece voltare di colpo.
Una donna in jeans color kaki, camicia blu scuro, scarponcini e berretto, ci stava venendo incontro. Le grandi lettere gialle sulla visiera annunciavano l'arrivo del National Transportation Safety Board, il Consiglio per la sicurezza dei trasporti nazionali.
«Scusate il ritardo, ma ho preso il primo volo disponibile.»
Si appese la videocamera al collo e tese la mano.
«Sheila Jansen, perito per la sicurezza aerea.»
Ci stringemmo la mano. La stretta di Sheila Jansen non aveva niente da invidiare a quella di un'anaconda.
La donna si tolse il berretto e si asciugò la fronte con l'avambraccio. Senza il cappello, ricordava la pubblicità del latte, tutta bionda e sana e piena di vitalità.
«Fa molto più caldo che a Miami.»
Ci trovammo unanimemente d'accordo sul fatto che facesse molto caldo.
«È tutto come è stato trovato, agente?» domandò Sheila Jansen, guardando attraverso il mirino della sua piccola camera digitale.
«A parte il fatto che abbiamo domato le fiamme» rispose Gullet.
«Sopravvissuti?»
«Nessuno di cui abbiamo avuto notizia.»
«Quante persone a bordo?» Sheila Jansen continuava a riprendere, spostandosi di qualche passo a destra e a sinistra per catturare la scena da diverse angolazioni.
«Almeno una.»
«I suoi uomini hanno già perlustrato la zona?»
«Sì.»
«Mi date solo un minuto?»
Sheila Jansen sollevò la videocamera.
Larabee le fece cenno di proseguire con il suo lavoro.
La guardammo fare il giro della carcassa, scattando fotografie e filmando. Poi fotografò la parete di roccia e i campi circostanti. Quindici minuti dopo Sheila Jansen si unì di nuovo al gruppo.
«L'aereo era un Cessna-210. Il pilota è al suo posto, e dietro c'è un passeggero.»
«Perché dietro?» domandai.
«Il sedile anteriore manca.»
«Perché?»
«Bella domanda.»
«È possibile sapere chi è il proprietario dell'aereo?» domandò Larabee.
«Adesso che ho il numero di immatricolazione posso fare delle ricerche.»
«Da dove è decollato?»
«Questo potrebbe essere difficile da scoprire. Una volta trovato il nome del pilota, posso contattare amici e familiari. Nel frattempo, verificherò se i radar avevano individuato il volo. Ovviamente, era un volo VFR e quindi i radar non avranno un identificativo e sarà una vera impresa rintracciare la rotta del velivolo.»
«VFR?» domandai.
«Scusate. I piloti si distinguono in IFR e VFR, cioè Instrument Flight Rule e Visual Flight Rule. I primi sono autorizzati al volo strumentale e possono viaggiare con qualsiasi tempo. Mentre i piloti VFR non usano strumentazione. E non possono volare al di sopra della linea delle nuvole oppure, nei giorni di cielo coperto, entro i cinquecento piedi dalla copertura. I piloti VFR quindi volano utilizzando i punti di riferimento terrestri.»
«Ottimo lavoro» commentò Gullet.
Lo ignorai.
«Ma i piloti non devono comunicare il piano di volo?»
«Sì, se un aereo decolla da un aeroporto CA sotto un CTA. È una norma entrata in vigore dopo l'11 settembre 2001.»
Il perito Jansen conosceva più acronimi che lettere dell'alfabeto.
«Cos'è un aeroporto CA?» domandai. Sapevo già che CTA significava controllo del traffico aereo.
«Indica la categoria A di un aeroporto per l'aviazione civile. E l'aereo deve volare rispettando specifiche restrizioni, soprattutto se l'aeroporto CA è vicino a una grande città.»
«L'elenco dei passeggeri è obbligatorio?»
«No.»
Ci avvicinammo tutti alla carcassa dell'aereo. Larabee fu il primo a parlare.
«Quindi questo pilota potrebbe essere uscito da solo?»
«I trafficanti di coca o altro non sono molto ligi ai regolamenti e ai piani di volo, che decollino o no da un aeroporto CA. Anzi, tendono a partire da luoghi remoti e a volare al di sotto del controllo radar. La mia idea è che siamo di fronte a un trasporto finito male di sostanze stupefacenti o schifezze simili. E di sicuro non troveremo nessun piano di volo.»
«Devo chiamare i federali e la DEA?» domandò Gullet.
«Dipende da quello che scopriamo.» Sheila Jansen indicò la videocamera. «Lasciatemi fare qualche ripresa ravvicinata. Poi potete iniziare con il recupero delle salme.»
Per le tre ore successive non facemmo altro.
Mentre Larabee e io ci davamo da fare con le vittime, Sheila Jansen continuò a catturare immagini digitali, a riprendere con la videocamera, a disegnare grafici e a incidere i suoi pensieri in un registratore portatile.
Hawkins, davanti alla carlinga, passava l'attrezzatura o scattava fotografie.
Gullet andava avanti e indietro offrendo bottiglie d'acqua e facendo domande.
Per tutto il resto di quel torrido pomeriggio, continuò l'andirivieni di persone sul luogo dell'incidente, ma io ero così immersa nel mio lavoro che quasi non mi accorsi di nessuno.
Il cadavere del pilota era bruciato al punto da non essere più riconoscibile; la cute era annerita, i capelli mancavano, le palpebre erano accartocciate a forma di mezzaluna. Una massa amorfa saldava l'addome alla cloche, ed era ciò che aveva trattenuto il corpo al suo posto.
«Che cos'è?» domandò Gullet, durante una delle sue visite.
«Probabilmente il fegato del pilota» rispose Larabee, mentre cercava di liberare i tessuti carbonizzati.
Fu l'ultima domanda dell'agente Gullet.
Uno strano residuo nero macchiava la carlinga. Mi era già capitato di lavorare su aerei da turismo precipitati, ma non avevo mai visto niente di simile.
«Per caso queste scaglie ti dicono qualcosa?» domandai a Larabee.
«No» rispose senza distrarsi dall'estrazione del pilota.
Una volta liberato, il corpo fu chiuso in un sacco mortuario e adagiato su una lettiga pieghevole. Un agente in divisa aiutò Hawkins a trasportare la salma sul veicolo dell'Istituto di medicina legale.
Prima di dedicarsi al passeggero, Larabee decise di fare una pausa, per registrare le sue osservazioni.
Saltai a terra, mi tolsi la mascherina, sollevai la manica della tuta e guardai l'ora. Per la milionesima volta.
Le sei e cinque.
Controllai il cellulare.
Ancora senza segnale. Dio benedica la campagna.
«Uno è fatto» disse Larabee infilando il registratore in una tasca interna della tuta.
«Non credo tu abbia bisogno del mio aiuto con il pilota.»
«No» confermò Larabee.
Non fu altrettanto per il passeggero.
Quando un oggetto in rapido movimento, come un'automobile o un aereo, si ferma improvvisamente, ciò che si trova all'interno e non è legato o assicurato in altro modo, diventa ciò che i biomeccanici chiamano «oggetti quasi scagliati». Ciascun oggetto all'interno dell'oggetto più grande continua ad avanzare alla velocità a cui stava viaggiando prima di essere fermato bruscamente.
E quando succede in un Cessna, non è niente di buono.
Diversamente dal pilota, infatti, il passeggero non era assicurato dalla cintura, e nel punto in cui la testa aveva urtato il parabrezza, vidi un ventaglio di capelli e di schegge ossee.
Il cranio presentava numerose fratture comminute dovute all'impatto, e il fuoco aveva completato l'opera, anche se non sarebbe stato necessario. Il passeggero infatti non era sopravvissuto al colpo.
Mi sentii rivoltare lo stomaco mentre spostavo l'attenzione dal busto carbonizzato e con la testa fracassata al raccapricciante scenario che lo circondava.
In lontananza frinivano le cicale, e il loro canto meccanico sembrava colmare l'aria immobile del tardo pomeriggio di un angosciante lamento.
Dopo un attimo di autocommiserazione per il compito che mi aspettava, mi sistemai la mascherina, entrai nella carlinga, passai sul retro e iniziai a separare i frammenti ossei dalla loro matrice di detriti e di materia cerebrale, che in gran parte erano rimbalzati indietro dopo aver urtato il parabrezza.
I campi di mais e le altre persone scomparvero. Il canto delle cicale scemò; di tanto in tanto udivo qualche voce, una radio, una sirena distante.
Mentre Larabee lavorava sul corpo del passeggero, io cercavo i frammenti del cranio andato in frantumi.
Denti. Margine orbitario. Un pezzo di mandibola. Ogni frammento era coperto dalle scaglie di residuo nero. Perché, mentre il pilota era solo picchiettato dalla sostanza, il passeggero ne era letteralmente incrostato. Continuavo a non avere idea di cosa fosse.
Appena colmavo un contenitore, Hawkins lo sostituiva con uno vuoto.
A un certo punto udii alcuni operai allestire delle luci e un generatore elettrico portatile.
L'aereo puzzava di carne carbonizzata e di carburante; l'interno del velivolo era saturo di fuliggine. Avevo la schiena dolorante, e continuavo a cambiare posizione, cercando inutilmente di lavorare con più agio.
Cercai di abbassare la mia temperatura corporea pensando a immagini fresche.
Una piscina. L'odore del cloro. La ruvidità dei bordi sotto la pianta dei piedi. L'impatto con l'acqua fredda al primo tuffo.
La spiaggia. Le onde sulle caviglie. Il vento sul viso. Sabbia fresca e salmastra sulle guance. Una folata di aria condizionata sulla pelle spalmata di crema solare.
Ghiaccioli.
Cubetti di ghiaccio nella limonata.
Finimmo quando gli ultimi cirri gialli e rosati del giorno scivolavano oltre l'orizzonte.
Hawkins fece un ultimo viaggio fino al furgone. Larabee e io ci sfilammo le tute e radunammo tutto nella cassa dell'attrezzatura. Quando già eravamo sulla strada, mi voltai per un'occhiata finale.
Il tramonto aveva privato il paesaggio di ogni colore e la notte estiva stava uniformando il mais, gli alberi, le rocce con tonalità di grigio e di nero.
Al centro della scena, lo sfortunato aeroplano risplendeva sotto la luce delle fotoelettriche come in una macabra rappresentazione shakespeariana in un campo di granturco.
Incubo di una notte di mezza estate.
Ero così sfinita che rimasi appisolata per gran parte del viaggio di ritorno.
«Vuoi che passiamo dall'ufficio, così prendi la tua auto?» domandò Larabee.
«No. Portami a casa.»
Questo fu l'unico scambio verbale.
Un'ora dopo Larabee mi lasciò davanti alla veranda.
«Ci vediamo domani?»
«Sì.»
Certo. Io non avevo una vita privata.
Scesi dall'auto e chiusi la portiera.
La cucina era buia.
Forse lo studio era illuminato.
Percorsi un lato dell'Annesso in punta di piedi e sbirciai oltre l'angolo del muro.
Buio.
Di sopra?
Idem.
«Bene» borbottai sentendomi stupida. «Spero che non ci sia.»
Entrai in cucina.
«C'è nessuno?»
Non un suono.
«Bird?»
Niente gatto.
Posai le mie cose a terra, mi tolsi le scarpe e riaprii la porta per metterle fuori.
«Birdie?»
Niente.
Andai nello studio e accesi la luce.
E rimasi con la bocca aperta.
Ero lercia, sfinita, e anni luce dall'essere anche solo passabile.
«Che caspita ci fai tu qui?»
7
Ryan aprì uno dei suoi incredibili occhi blu.
«Tutto qui, quello che hai da dirmi?»
«Sto parlando con lui.»
Indicai Boyd con un dito sporco.
Il cane era accoccolato su un lato del divano, con le zampe che penzolavano oltre il bordo. Ryan era sdraiato con la testa sull'altro lato e le gambe allungate e incrociate sopra Boyd.
Nessuno dei due portava le scarpe.
Nel sentire la mia voce, Boyd si alzò di scatto.
Gli ordinai di scendere con il dito.
Boyd ubbidì e scivolò sul pavimento. I due quarantacinque di Ryan caddero sul cuscino del divano.
«Violazione di mobilio privato?» Ryan aveva aperto anche il secondo occhio.
«Mi sembra di capire che hai trovato la chiave...»
«Senza nessun problema.»
«E com'è arrivato fin qui il cane, e come mai ti ha permesso di sgusciare in casa?»
Boyd e Ryan si guardarono perplessi.
«L'ho chiamato Spugna. Mi sono tenuto sul generico. Ma in fondo gli sta bene.»
Boyd sollevò le orecchie.
«E chi ha fatto entrare Spugna, e perché Spugna ti ha fatto entrare?»
«Spugna si ricordava di me dai tempi del disastro aereo della TransSouth, a Bryson City.»
L'avevo dimenticato. Quando il suo collega era morto mentre accompagnava un prigioniero dalla Georgia a Montréal, Ryan era stato incaricato di aiutare l'NTSB nelle indagini sul disastro aereo. Lui e Boyd si erano conosciuti in quell'occasione, sulle montagne della Carolina.
«E Spugna, com'è entrato?»
«L'ha portato tua figlia.»
Boyd infilò il naso sotto la mano di Ryan.
«Bella ragazza.»
Bell'imboscata, pensai, trattenendo un sorriso. Katy aveva pensato che un ospite non poteva rifiutare il cane.
«Bel cane.»
Ryan diede una grattatina a Boyd dietro le orecchie, mise i piedi per terra e mi squadrò da capo a piedi. Gli angoli della sua bocca si alzarono.
«Bel look.»
I miei vestiti erano sporchi oltre ogni immaginazione e avevo le unghie incrostate di fango e di lerciume. I capelli erano impastati di sudore, le guance infiammate dal milione di punture di insetti. Puzzavo di mais, di carburante e di carne carbonizzata.
Come mi avrebbe descritto mia sorella Harry? Sbattuta alla grande e messa via bagnata.
Ma non avevo l'umore per sopportare critiche al mio look.
«Ho raschiato materia cerebrale arrostita per tutto il pomeriggio, Ryan. Nemmeno tu, al mio posto, sembreresti uscito da una pubblicità della Maison Dior.»
Boyd mi guardò ma tenne i suoi pensieri per sé.
«Hai mangiato?» domandò Ryan.
«Il buffet non era incluso.»
Nel sentire il mio tono, Boyd infilò di nuovo il muso sotto la mano di Ryan.
«Spugna e io pensavamo a una pizza.»
Boyd scodinzolò al suono del suo nuovo soprannome. O forse al suono della parola pizza.
«Si chiama Boyd.»
«Perché non vai di sopra, e ti dai una ripulita? Intanto Boyd e io vediamo di trovare qualcosa da mettere sotto i denti per cena.»
Mettere sotto i denti?
Nato in Nova Scoria, Ryan aveva trascorso tutta la sua vita adulta nella provincia del Québec. E benché avesse viaggiato molto, il suo punto di vista sulla cultura americana era quello del tipico canadese. Gangster. Indiani. Cowboy. Così, di tanto in tanto, cercava di impressionarmi con il suo slang un po' datato. Sperai che non fosse quella la serata.
«Questione di qualche minuto» dissi.
«Fai con comodo.»
Bene. Niente modi di dire a effetto.
Invece, mentre salivo le scale, aggiunse un «... bella puledra».
Un'ennesima schiumosa e vaporosa sessione nella stanza da bagno, per ripulire anima e corpo dal puzzo della morte. Bagnoschiuma alla lavanda, shampoo al ginepro, balsamo menta-rosmarino. Stavo attraversando la fase delle erbe aromatiche.
Mentre mi insaponavo, pensai all'uomo che mi aspettava di sotto.
Andrew Ryan, lieutenant-détective, Section des crimes contre la personne, Sûreté du Québec.
Ryan e io lavoravamo insieme da quasi dieci anni, lui come investigatore della Omicidi, e io come antropologa forense. Entrambi specialisti e collaboratori di due enti governativi di Montréal con sede nella stessa struttura - lui della polizia di Stato del Québec e io dell'Istituto di medicina legale - ci occupavamo di serial killer, gang di biker illegali, sette di fanatici e delinquenti comuni. Io analizzavo le vittime; lui faceva il lavoro sul campo. E sempre in modo rigorosamente professionale.
Nel corso degli anni, avevo sentito molte storie sul passato di Ryan. Moto, alcol, sbronze smaltite in guardina. L'aggressione di un cocainomane con una coltellata quasi fatale. Il lento recupero. La defezione dalle file dei cattivi. L'ascesa tra i ranghi della polizia di Stato.
Avevo anche sentito racconti sul suo presente. Lo stallone del commissariato. Lo sciupafemmine.
Per me erano irrilevanti. In merito, seguivo un principio ferreo: niente storie con i colleghi.
Ma Ryan non era altrettanto rigoroso, con i principi. E aveva continuato a insistere. E io a resistere. E poi, due anni fa, dopo aver infine accettato dentro di me il fatto che io e Pete stavamo meglio come amici che come coniugi, avevo accettato di uscire con lui.
Uscire?
Gesù. Sembravo mia madre.
Mi versai addosso ancora un po' di bagnoschiuma alla lavanda e mi insaponai ancora.
Quale termine bisogna usare per i single ultraquarantenni?
Vedersi? Farsi il filo? Corteggiarsi?
La questione era controversa, perché prima che qualcosa potesse succedere, Ryan era sparito per una missione sotto copertura. Quando era tornato alla vita normale, avevamo tentato qualche cena insieme, cinema, bowling, ma non eravamo mai arrivati al corteggiamento.
Vidi Ryan nella mente. Alto, dinoccolato, gli occhi più azzurri di un cielo della Carolina.
Sentii un tremito allo stomaco.
Corteggiamento!
Forse non ero così stanca come pensavo.
La primavera scorsa, alla fine di un periodo emotivamente molto duro in Guatemala, avevo infine deciso di buttarmi e avevo accettato di fare una vacanza con Ryan.
Che cosa poteva andar male durante una vacanza al mare?
Non l'ho mai scoperto. Il cellulare di Ryan aveva squillato mentre andavamo all'aeroporto di Ciudad de Guatemala, e invece di partire per Cozumel, avevamo preso l'aereo per Montréal.
Ryan era tornato ai suoi appostamenti a Drummondville; io alle mie ossa e al mio laboratorio.
Corteggiamento interruptus.
Mi sciacquai.
Adesso il tenente don Giovanni aveva parcheggiato il suo posteriore sul divano del mio studio.
Un bel posteriore.
Tremito allo stomaco.
Sodo. Con tutte le curve al posto giusto.
Altro tremito. Più forte.
Uscii dalla doccia e cercai l'asciugamano. Il vapore era così denso che non riuscivo a vedermi allo specchio.
Ottimo lavoro, pensai, immaginando i ricami delle zanzare e dei moscerini sulla mia faccia.
Indossai il mio decrepito accappatoio di spugna, regalo di Harry per il mio dottorato alla Northwestern. Maniche sfilacciate. Macchie di caffè. Il genere di conforto del mio intero guardaroba, un po' come il cioccolato in un momento di depressione.
Birdie era accoccolato sul letto.
«Salve, Bird.»
Se i gatti sono in grado di guardarti con aria di rimprovero, Birdie lo stava facendo.
Sedetti accanto a lui e gli accarezzai la schiena.
«Non l'ho invitato io, il cagnone.»
Birdie non disse nulla.
«Che ne pensi dell'altro tipo?»
Birdie ritirò le zampe sotto il petto, e mi guardò con la sua aria da sfinge.
«Pensi che dovrei mettermi il perizoma?»
Mi stesi sul letto.
«Oppure dovrei finalmente inaugurare la mia scorta segreta di intimo delle grandi occasioni?»
Be', diciamo che l'intimo era il meglio che si poteva trovare in Guatemala. Avevo miracolosamente trovato un negozio di lingerie e avevo comprato gli articoli migliori per la vacanza al mare per cui non eravamo mai partiti. E quei completini erano ancora chiusi nelle loro bustine rosa, con tanto di etichetta.
Chiusi gli occhi e cercai di ricordare che cosa avevo comprato.
Il sole filtrava di nuovo attraverso le foglie della magnolia, riscaldandomi il viso con il suo tepore.
Sentii profumo di pancetta e udii rumori in cucina.
Un attimo di confusione, poi ricordai.
Spalancai gli occhi.
Ero rannicchiata in posizione fetale sul copriletto, con addosso la coperta afgana di mia nonna.
Controllai l'ora.
Le otto e ventidue.
Un gemito di disappunto.
Mi alzai dal letto, mi infilai jeans e T-shirt e mi diedi una spazzolata. Mi ero addormentata con i capelli bagnati, e adesso la parte destra era completamente schiacciata, mentre la sinistra ricordava una cotonatura degli anni Sessanta.
Provai con l'acqua. Niente da fare. Sembravo Little Richard con la parrucca.
Fantastica.
Ero già a metà rampa, quando mi venne in mente l'alito.
Di nuovo su, a lavare i denti.
Boyd mi salutò in fondo alle scale, con gli occhi scintillanti come un tossico dopo una tirata di crack. Gli grattai le orecchie. Lui schizzò di nuovo in cucina.
Ryan era ai fornelli. In jeans. Solo con i jeans. A vita bassa.
Oh, santo cielo.
«Buon giorno» dissi, non trovando un esordio più originale.
Ryan si voltò, con la forchetta in mano.
«Buon giorno, principessa.»
«Ascolta, mi spiace per...»
«Caffè?»
«Grazie.»
Riempì una tazza e me la passò. Boyd gironzolava per la cucina, eccitato dall'odore del grasso che sfrigolava nella padella. Birdie era rimasto di sopra, torvo di risentimento.
«Devo essermi add...»
«Spugna e io agognavamo un po' di uova e pancetta.»
Agognavamo?
«Siediti» ordinò Ryan, puntando la forchetta verso il tavolo.
Mi misi a sedere. Boyd si mise a sedere.
Ma quando si rese conto dell'errore, il cane si alzò, gli occhi fissi sulla pancetta che Ryan stava trasferendo su un tovagliolino di carta.
«Hai trovato un cuscino e una coperta?»
«Sì, bella puledra.»
Sorseggiai il mio caffè.
«Ottimo caffè.»
«Grazie, bella puledra.»
Non c'erano dubbi. Eravamo in pieno Selvaggio West.
«Dove hai preso le uova e la pancetta?»
«Spugna e io siamo usciti a fare un giro. E ci siamo infilati nel primo negozio di alimentari che abbiamo trovato.»
Notai una scatola vuota di pizza sul piano di lavoro.
«Mi dispiace tantissimo per essermi addormentata in quel modo ieri sera.»
«Eri esausta. Sei crollata. Nessun problema.»
Ryan regalò a Boyd una striscia di pancetta, poi si voltò e mi fissò con i suoi fanali blu. Lentamente sollevò le sopracciglia.
«Certo, non era quello che avevo in mente...»
Oh, santo cielo.
Mi spostai i capelli dietro le orecchie con entrambe le mani. La parte destra ubbidì.
«Temo che oggi dovrò lavorare.»
«Io e Spugna ce lo aspettavamo, e ci siamo organizzati.»
Ryan aprì alcune uova nella padella, e gettò i gusci nella pattumiera come per fare canestro.
«Ma ci serviranno delle ruote.»
«Se vuoi, puoi accompagnarmi e tenere la mia auto.»
Non chiesi come si erano organizzati.
Mentre mangiavamo, gli descrissi il sito dell'incidente aereo. Ryan concordò sul fatto che poteva trattarsi di trafficanti di droga. Ma nemmeno lui aveva idea di che cosa fosse lo strano residuo nero.
«Gli investigatori dell'NTSB che cosa hanno detto?»
Scossi la testa.
«Larabee eseguirà l'autopsia del pilota, ma mi ha chiesto di occuparmi della testa del passeggero.»
Boyd mi toccò il ginocchio con la zampa. Non ricevendo risposta, si rivolse a Ryan.
Passò qualche secondo, poi ci versammo una terza tazza di caffè e passammo a parlare degli amici comuni, dei suoi familiari, delle cose che avremmo fatto alla fine dell'estate, quando sarei tornata a Montréal. La conversazione procedette leggera e frivola, lontana milioni di anni luce dagli orsi in decomposizione e dal Cessna schiantato in un campo di mais. Mi ritrovai a sorridere senza motivo. Volevo stare a casa, a fare sandwich prosciutto senape e sottaceti, a guardare vecchi film, a vagare ovunque la giornata ci avesse portati.
Ma non potevo.
Allungai la mano e sfiorai la guancia di Ryan.
«Sono davvero felice che tu sia qui» dissi, con un sorriso radioso e gli occhi che ridevano.
«Anch'io sono felice di essere qui» rispose Ryan.
«Ho ancora qualche osso di animale da esaminare, ma non dovrebbe volerci molto. Possiamo partire per il mare domani.»
Finii il caffè, rividi le schegge del cranio che avevo recuperato nella fusoliera carbonizzata. E il mio sorriso smise di essere così radioso.
«Mercoledì al più tardi.»
Ryan diede a Boyd l'ultima striscia di pancetta.
«L'oceano non finisce» disse.
E come avremmo scoperto di lì a poco, non finiva nemmeno la sfilata di cadaveri.
8
Ryan non poteva accompagnarmi. Non avevo la macchina.
Chiamai Katy. Arrivò nel giro di qualche minuto per portarci in centro, contenta di quella commissione mattutina.
Già. Giusto.
L'aria era calda e umida, e l'uomo delle previsioni del tempo aveva escluso un calo della temperatura. Ryan era decisamente troppo vestito con i suoi jeans, calze, mocassini e felpa con le maniche corte.
Arrivati all'Istituto di medicina legale consegnai a Ryan le chiavi della mia auto. Sulla College un ragazzino con maglietta oversize e calzoni con il cavallo alle ginocchia si dirigeva verso l'edificio della contea facendo rimbalzare una palla al ritmo della musica che ascoltava con il walkman.
Malgrado il pessimo umore, non riuscii a trattenere un sorriso. Ai tempi della mia gioventù, i jeans dovevano essere così stretti da provocare l'arteriosclerosi. Quelli di quel ragazzo erano grandi abbastanza per contenere tre persone.
Quando Katy e Ryan si allontanarono, il mio sorriso scomparve. Non sapevo dove stesse andando mia figlia, né che cosa avesse in programma Ryan con il cane del mio ex marito, ma avrei voluto andare con loro.
Avrei voluto essere ovunque, tranne che lì.
Un obitorio non è un posto tanto allegro. I visitatori non vengono qui per avere un piacevole diversivo.
Io lo so bene.
Ogni giorno l'avidità, la passione, la disattenzione, la stupidità, l'autodistruzione si incontrano con il male, o con la semplice sfortuna, e mandano all'altro mondo persone altrimenti sane. Ogni giorno, quelli che restano sono sconvolti dalla rapidità della morte inattesa.
I fine settimana producono un raccolto eccezionale, sicché il lunedì è il giorno peggiore.
E io so bene anche questo.
Quando mi presentai alla porta esterna, la signora Flowers mi salutò con la sua mano paffuta, e premette il pulsante che apriva la porta che dava sull'atrio.
Joe Hawkins era già nel suo cubicolo, e stava parlando con una donna con vestiti e faccia cascante, una di quelle persone dall'età indefinita, che poteva avere tra i quaranta e i sessant'anni.
La donna ascoltava, gli occhi velati e distanti, le dita impegnate a torturare un lembo di tessuto. In realtà non stava ascoltando; era impegnata a vivere il suo primo scampolo di vita senza la persona di cui aveva appena riconosciuto il cadavere.
Incrociai lo sguardo di Hawkins e gli feci capire che poteva continuare con ciò che stava facendo.
La lavagna elencava tre nuovi casi. Era stata una domenica intensa per Charlotte. Il pilota e il suo passeggero avevano ricevuto il numero MCME 438-02 e MCME 439-02.
Larabee aveva già il pilota sul tavolo anatomico della sala autopsie principale. Quando feci capolino, stava esaminando la pelle bruciata con una lente di ingrandimento manuale.
«Si sa qualcosa sull'identità di queste persone?» domandai.
«Ancora niente.»
«Impronte digitali o documentazione odontoiatrica?»
«Le dita dì questo corpo sono troppo malmesse. Ma gran parte dei denti sono intatti. Pare che il nostro amico a un certo punto di questo millennio o del precedente sia andato dal dentista. Di sicuro è andato dal suo tatuatore di fiducia. Stavo controllando la sua opera d'arte.»
Larabee mi passò la lente.
La parte inferiore del dorso era stata protetta dalle fiamme dal contatto con il sedile. Sulla pelle si distingueva l'estremità di un serpente, con ali e artigli. Tra le spire e lungo i margini del rettile danzavano delle fiamme rosse.
«Riconosci il motivo?» domandai.
«No. Ma qualcuno sarà in grado di farlo.»
«Il tizio sembra bianco.»
Larabee passò una spugna sul tatuaggio. Sotto la patina che aveva asportato comparve un'altra porzione di serpente. La pelle tra le scaglie era bianco pallido.
«Già» concordò. «Ma guarda qui.»
Larabee infilò la mano sotto la spalla del pilota e lo sollevò. Io mi sporsi in avanti.
Il petto dell'uomo era punteggiato di chiazze nere, simili a piccole sanguisughe carbonizzate.
«È la stessa sostanza di cui è ricoperto il passeggero.»
Larabee appoggiò la spalla del pilota al tavolo.
«Già.»
«Qualche idea di che cosa possa essere?» domandai.
«Nessuna.»
Dissi a Larabee che andavo a lavorare nell'altra sala.
«Joe ha messo le radiografie sul diafanoscopio» mi informò.
Aprii un fascicolo, mi cambiai, presi un piccolo carrello e andai alla cella frigorifera. Quando girai la maniglia della porta d'acciaio, fui investita da una zaffata maleodorante di carne carbonizzata e refrigerata.
Le lettighe erano disposte su due file ordinate. Sette erano vuote. Quattro occupate.
Controllai le etichette sui sacchi mortuari.
MCME 437-02. Ursus e compagnia.
MCME 415-02. Uomo nero sconosciuto. Lo chiamavamo Billy in riferimento al luogo del ritrovamento, vicino al Billy Graham Parkway. Billy era un vecchio senza denti morto sotto una coperta di giornali, solo e indesiderato. In tre settimane, nessuno era venuto a reclamarlo. Larabee gli dava tempo fino alla fine del mese.
MCME 440-02. Earl Darnell Boggs. Data di nascita: 14 dicembre 1948. Immaginai che lo sfortunato signor Boggs fosse il compagno della signora nel cubicolo di Hawkins.
MCME 439-02. Il passeggero.
Aprii la cerniera del sacco.
Il corpo era come lo ricordavo: carbonizzato, testa fracassata, arti superiori piegati in posizione da pugile. Le mani erano diventate poco più che artigli raggrinziti. Non avremmo trovato impronte neppure lì.
Hawkins aveva sistemato i miei contenitori di plastica su una sporgenza sopra le spalle del passeggero, come per simulare la testa schiacciata. Prelevai i contenitori, richiusi la cerniera del sacco mortuario e spinsi il carrello fino alla sala autopsie più piccola.
Le radiografie spiccavano bianche e nere sul diafanoscopio. Sulla seconda notai due oggetti metallici mischiati ai denti e frammenti di mandibola. Uno degli oggetti ricordava un giglio, l'altro la sagoma dell'Oklahoma.
Bene. Anche il passeggero era stato dal dentista.
Mi infilai i guanti di lattice, stesi un lenzuolo di carta sul tavolo anatomico e svuotai il contenitore numero due. Ci volle qualche minuto per individuare e prelevare i due restauri dentali fuori posto. Dopo averli sigillati in una provetta, separai tutti i frammenti di mandibola e di dente, li posai su un vassoio e li misi da parte.
Dopodiché mi dedicai al cranio.
Non avrei potuto procedere alla ricostruzione, i danni provocati dall'effetto del fuoco erano troppo gravi.
Sollevando porzioni di carne carbonizzata e le scaglie di quella strana sostanza nera, iniziai a studiare il rompicapo dell'architettura craniale.
Un segmento di osso frontale scendeva verso i due margini sovraorbitari prominenti. Le porzioni degli occipitali mostravano mastoidi tondeggianti e la più grande inserzione dei muscoli del collo che avessi mai visto. La parte posteriore della testa di quel tizio doveva essere sporgente come una palla da golf.
Il passeggero del sedile posteriore era decisamente un maschio. Non che la mia scoperta fosse fondamentale. Larabee avrebbe tratto la stessa conclusione durante la sua autopsia.
Passai all'età.
Mi spostai di due passi sulla destra, e studiai il vassoio con i frammenti dentari.
Come le piante, anche i denti affondano le loro radici negli alveoli molto dopo che le corone sono spuntate dalle gengive. A venticinque anni, il giardino è in piena fioritura, e i terzi molari, i famosi denti del giudizio, sono completi fino alle radici. Da un punto di vista dentario, sin qui le cose sono semplici. Invece poi, con l'avanzare dell'età, è tutto molto più complicato.
Anche se lo smalto del passeggero era mancante o troppo friabile per essere valutato, tutte le radici visibili erano complete. Per esaminare quelle nascoste dentro gli alveoli mi servivano le radiografie.
Tornai ai resti del cranio.
Come per la dentizione, anche le ossa del cranio raggiungono l'assetto definitivo con il tempo. Alla nascita, le ventidue ossa sono al loro posto, ma non sono saldate. Sono separate da linee seghettate chiamate suture. Con l'età adulta, le linee si saldano tra loro finché la calotta cranica diventa una sfera rigida.
In genere, più sono i compleanni, meno le linee sono seghettate.
Dopo aver staccato il cuoio capelluto annerito dai frammenti del cranio, fui in grado di studiare alcune porzioni di suture relative alla sommità, al retro e alla base della testa.
Lo zig-zag basilare era fuso. Altri invece non lo erano. Solo quello sagittale, cioè quello che attraversa la sommità della testa dalla fronte alla nuca, mostrava alcuni ponti ossei.
Anche se la chiusura della calotta cranica è notoriamente variabile, quella configurazione indicava che poteva trattarsi di un giovane adulto.
Passai alla determinazione della razza.
Stabilire la razza di una persona è sempre un'impresa difficile. Con un cranio fracassato, era quasi impossibile.
Il terzo superiore di un osso nasale era articolato con un grande frammento frontale. La sua inclinazione verso il basso dalla linea mediana era acuta, e conferiva al ponte nasale una forma alta e stretta, simile al campanile di una chiesa.
Lasciai l'osso frontale e mi dedicai a una porzione di ossa facciali.
L'apertura nasale era stretta, con un margine inferiore arrotondato e una minuscola cuspide al centro. L'osso tra la base del naso e l'arcata dentaria superiore scendeva dritto verso il basso, se guardato di profilo. Gli zigomi sporgevano ai lati formando due ampi archi.
Il ponte nasale «a campanile», il margine inferiore nasale ben definito e la parte inferiore della faccia relativamente piatta suggerivano razza caucasoide, cioè europea.
Gli zigomi sporgenti, suggerivano razza mongolide, cioè asiatica, o nativa americana.
Fantastico.
Tornai alla dentizione.
Solo uno degli incisivi presentava parte di una corona. Lo girai. Il retro del dente mostrava una lieve cresta nel punto in cui lo smalto incontrava la linea della gengiva.
Stavo studiando l'incisivo, quando Joe Hawkins comparve alla mia porta.
«Ti si direbbe disorientata.»
Sporsi la mano.
«Non sono sicura se sia un incisivo a pala; in ogni caso c'è qualcosa di strano.»
Joe guardò il dente.
«Se lo dici tu, dottoressa.»
La definizione «a pala» si riferisce al margine a forma di U sulla superficie linguale dei quattro denti centrali. Questo tipo di dente in genere indica che la persona è di razza asiatica o nativa americana.
Posai il dente sul vassoio e richiesi la radiografia dei frammenti mandibolari.
Controllai l'ora. L'una e quaranta.
Nessuna meraviglia che fossi affamata.
Mi tolsi guanti e mascherina, mi lavai con la soluzione antibatterica e infilai un camice sulla tenuta da laboratorio. Dopodiché andai nel mio ufficio a divorare una barretta ai cereali con una lattina di Diet Coke.
Mentre mangiavo, controllai le chiamate che avevo ricevuto.
Un giornalista del «Charlotte Observer».
Skinny Slidell. Per il caso del neonato dei Banks.
Sheila Jansen. Aveva chiamato molto presto. All'NTSB erano molto efficienti.
Il quarto foglietto rosa attirò la mia attenzione.
Geneva Banks.
Provai a comporre il numero dei Banks. Nessuna risposta.
Chiamai Sheila Jansen.
La sua casella vocale invitava a lasciare un messaggio.
Lo lasciai.
Mi alzai e passai nella sala autopsie principale. Sul tavolo anatomico, al posto del pilota adesso c'era il passeggero, e Tim Larabee si accingeva a praticare la seconda incisione a Y della giornata.
Mi avvicinai e osservai il corpo. Il genere era evidente, ma non si poteva dire altrettanto per l'età e per la razza. Avremmo ricavato quelle informazioni dall'esame scheletrico.
Gli spiegai le discrepanze nelle caratteristiche razziali. Larabee mi disse che non aveva notato niente di utile nel corpo.
Chiesi di avere le sinfisi pubiche, cioè la porzione del bacino in cui le due metà si uniscono anteriormente, e le estremità sternali delle terze, quarte e quinte coste per precisare la stima dell'età. Larabee disse che me le avrebbe mandate.
Mi disse anche che aveva parlato con Sheila Jansen, il perito dell'NTSB. Sarebbe passata da noi nel tardo pomeriggio. Non aveva ricevuto telefonate né da Geneva Banks né da Skinny Slidell.
Quando tornai nella sala autopsie piccola, Hawkins aveva fissato le radiografie dei denti sui diafanoscopi.
Le radici del canino sinistro e del secondo molare, e di tutti i denti del giudizio, erano visibili in diversi frammenti mandibolari. Mentre il canino e il secondo molare erano completi fino all'apice, i denti del giudizio non avevano ancora superato la cresta alveolare.
Da un punto di vista dentario, il passeggero poteva avere tra i diciotto e i venticinque anni.
La razza invece continuava a essere un problema.
Tornai alle arcate zigomatiche.
Okay. Guance da razza mongolide, o asiatica.
Di nuovo ai mascellari e al frontale, che invece indicavano un naso caucasoide.
Mentre osservavo l'osso frontale, un'irregolarità mi colpì. Portai il frammento al microscopio e regolai la messa a fuoco.
Sotto la lente di ingrandimento, l'irregolarità si presentava come una macchia circolare di consistenza più porosa rispetto all'osso circostante. I margini della macchia erano definiti.
Una lesione strana, molto diversa da quelle che in genere comparivano sulle ossa del naso. Non avevo idea di che cosa potesse indicare.
Trascorsi l'ora successiva a pulire frammenti, staccare tessuto molle, registrare osservazioni. Non trovai altre anomalie, ma richiesi ugualmente le radiografie del resto dello scheletro. La lesione nasale sembrava attiva, e suggeriva una patologia cronica di qualche genere.
Alle tre e mezzo Hawkins mi portò le coste e il pube e promise di eseguire una serie completa di radiografie appena Larabee avesse concluso il suo lavoro sul corpo del passeggero.
Stavo immergendo il pube e le coste in una soluzione di acqua calda e detersivo quando entrarono Larabee e Sheila Jansen. Il perito dell'NTSB indossava jeans neri e maglietta rossa senza maniche.
Le ore trascorse in sala autopsie mi avevano resa insensibile all'odore della testa non più refrigerata del passeggero, che aveva ripreso il processo di decomposizione sul mio tavolo anatomico. In più, i miei guanti sporchi e gli abiti da lavoro sicuramente davano il loro contributo al bouquet della stanza.
Le labbra e le narici di Sheila Jansen si irrigidirono, e per un attimo il suo viso perse ogni espressione. Ma poi il perito dell'NTSB riuscì a riprendere il controllo dei suoi lineamenti.
«È ora di raccontarci una storia?» chiesi, togliendomi guanti e mascherina e gettandoli nel bidoncino dei rifiuti.
Sheila Jansen annuì.
«Perché non ci vediamo in sala riunioni?» suggerii.
«Ottima idea» rispose Larabee.
Quando li raggiunsi, il medico legale stava illustrando i suoi rilevamenti.
«... lesioni traumatiche multiple.»
«Ha trovato fuliggine nelle vie respiratorie?» domandò il perito.
«No.»
«Bene. Questo significa che quando il velivolo si è schiantato contro la parete rocciosa, il serbatoio si è spaccato ed è esploso provocando un incendio. Immagino che entrambe le vittime siano morte per l'impatto.»
«L'abbruciamento esterno era grave, ma non ho notato una distruzione rilevante dei tessuti profondi» riferì Larabee.
«Dopo l'impatto, la forza di gravità è entrata in azione, e il carburante è caduto sulla parete di roccia» spiegò Sheila Jansen.
Rividi la scia di vegetazione bruciata.
«Quindi le vittime sono state esposte all'incendio seguito all'esplosione, ma il fuoco non dovrebbe essere durato a lungo.»
«Potrebbe essere così. Sì» confermò Larabee.
«Entrambi i corpi presentano chiazze di una sostanza nera» dissi, sedendomi su una sedia. «Soprattutto il passeggero.»
«Ho trovato la stessa sostanza su tutta la carlinga. Ne ho fatto analizzare un campione.»
«Stiamo eseguendo gli esami per verificare la presenza di alcol, amfetamine, metamfetamine, barbiturici, cannabacee, oppiacei» disse Larabee. «Se i nostri amici frequentavano i paradisi artificiali, lo scopriremo.»
«Ha parlato al maschile» osservò Sheila Jansen.
«Sì; il pilota era un maschio bianco, probabilmente sulla trentina, tra il metro e settanta e il metro e settantacinque; molti restauri dentali, un grande tatuaggio.»
Sheila Jansen annuì e prese nota.
«Anche il passeggero era maschio. Più alto. Con la testa fracassata.» Larabee si voltò verso di me. «Tempe?»
«Probabilmente poco più che ventenne» dissi.
«È possibile capire la razza?» domandò Sheila Jansen.
«Sì.»
Il perito sollevò lo sguardo.
«Ci sto ancora lavorando.»
«Segni particolari?»
«Almeno due otturazioni.» Mi vennero in mente le ossa del naso. «E aveva qualcosa di strano nel naso. Vi farò sapere anche di questo.»
«Adesso tocca a me.» Sheila Jansen sfogliò le pagine del suo taccuino. «L'aereo era intestato a un certo Richard Donald Dorton. Ricky Don per gli amici.»
«Età?» domandai.
«Cinquantadue. Ma ieri Dorton non volava. Sta aspettando che passi l'ondata di caldo a Grandfather Mountain. Sostiene di aver lasciato il suo Cessna sano e salvo in una pista d'atterraggio privata vicino a Concord.»
«Qualcuno ha visto l'aereo decollare?» domandai.
«No.»
«Piano di volo?»
«No.»
«E nessuno l'ha visto in cielo durante il volo?»
«No.»
«Si sa perché si è schiantato?»
«Il pilota è volato dritto contro la parete rocciosa.»
Riflettemmo per qualche secondo.
«Chi è questo Ricky Dorton?» domandai.
«Ricky Don Dorton è proprietario di due locali di spogliarello, il Club of Jacks e l'Heart of Queens, entrambi a Kannapolis. Che se non sbaglio è una piccola cittadina a nord di qui, giusto?»
Larabee e io confermammo.
«Ricky Don fornisce volgarità per gentleman di ogni livello sociale.»
«Un vero benefattore» commentò Larabee.
«Un vero furbacchione» replicò Sheila Jansen. «Ma un furbacchione ricco. Il Cessna-210 è solo uno dei suoi tanti giocattoli.»
«Ma tette e culi sono così redditizi?» domandai.
Sheila Jansen alzò le spalle, come per dire che gliene importava poco.
«Non potrebbe essere che questo Ricky Don sia coinvolto nel business del traffico di droga?» domandai.
«L'idea in effetti ha attraversato la mente della polizia locale. Tengono Dorton sotto sorveglianza da mesi.»
«Fatemi indovinare» dissi. «Ricky Don non ha niente a che fare con il coro della Chiesa battista.»
Larabee mi diede un colpetto sulla spalla. «È una ragazza molto perspicace, vero?»
Sheila Jansen sorrise. «C'è un solo problema. L'aereo era pulito.»
«Niente droga?»
«Non fino a questo momento.»
Ci alzammo.
Posi un'ultima domanda.
«Ma perché un uomo adulto si farebbe chiamare Ricky Don?» Suonava come il nome di uno dei tipici saloon texani di mia sorella Harry.
«Forse non vuole sembrare un tizio che si dà delle arie.»
«Ah, capisco» dissi.
In realtà non capivo affatto.
Erano le quattro e mezzo quando Sheila Jansen se ne andò. Io avevo voglia di rientrare a casa, fare una lunga doccia, attingere alla mia scorta di intimo delle grandi occasioni e passare la serata con Ryan.
Ma volevo anche partire per il mare l'indomani. Appena alzata.
E avevo ancora le ossa degli orsi nella cella frigorifera.
Ammesso che le cose noiose si possano evitare, io sono una procrastinatrice di prima classe. Faccio progredire la mia posta da una pila all'altra, e poi finisco per buttare via tutto quando le scadenze o le occasioni sono passate. Aspetto che la neve si sciolga, prima di andare a spalarla. Coabito con erbacce e infestanti; il mio giardino affida la sua sopravvivenza alla pioggia.
In compenso, i compiti non finiti ma inevitabili pendono sulla mia testa come una spada di Damocle. Per l'intera durata dei miei studi ho presentato i lavori richiesti in anticipo sulla data stabilita. Non ho mai passato notti in bianco per finire qualcosa. Pago le bollette entro la scadenza. Non riesco a riposare finché non ho fatto ciò che devo.
Chiamai Ryan al cellulare. Quattro squilli, poi la sua voce mi invitò a lasciare un messaggio in francese e in inglese.
«Prepara qualcosa, pistolero. Sono a casa per le sette.»
Conclusa la chiamata, riflettei sul mio messaggio. Mi riferivo a bistecche e patatine, ovviamente. Ma in effetti Ryan poteva anche pensare a qualcos'altro.
Provai a telefonare a Geneva Banks. Di nuovo nessuna risposta.
Valutai se chiamare Skinny Slidell.
Evitabile.
Tornai in sala autopsie, mi infilai un grembiule pulito, cambiai la soluzione in cui avevo immerso il pube e le coste, e raccolsi i resti del cranio del passeggero nei loro contenitori. Quindi andai nella cella frigorifera, riposi i contenitori accanto al loro decapitato proprietario e prelevai I Tre Orsi.
Mi restava da esaminare solo una parte di sacco. Quanto ci sarebbe voluto?
Tornata in sala autopsie, svolsi la plastica e rovesciai il contenuto sul tavolo anatomico.
Le ossa grandi mi presero non più di dieci minuti. Tutte di orso.
Stavo posando l'ultima tibia, quando qualcosa disturbò il mio campo visivo. Mi voltai verso il mucchietto di frammenti più piccoli che avevo accumulato da una parte.
Lo sguardo cadde su un oggetto che era rotolato via dal mucchio.
Ebbi un tuffo al cuore.
Cercai nel mucchietto e ne trovai un altro.
Chiusi le mani a pugno e la testa mi si afflosciò, come un orologio di Dalí.
9
Respirai a fondo, aprii gli occhi e riesaminai i due ossicini. Uno aveva forma cubica e il processo era simile a un uncino. L'altro ricordava un busto in miniatura, parzialmente modellato.
Niente a che vedere con la specie Ursus.
Maledizione!
Avevo il cuore in caduta libera.
Con i due carpali sul palmo della mano, andai a cercare Larabee. Lo trovai nel suo ufficio.
Gli mostrai le ossa.
Lui le guardò, poi guardò me.
«Un uncinato e un capitato» dissi.
«Sono della banda di Riccioli d'Oro?»
Annuii.
«Zampa?»
«Mano.»
Larabee corrugò la fronte.
«Umana?»
«Molto.»
«Sei sicura?»
Non risposi.
«Maledizione!» Larabee gettò la penna sulla scrivania.
«Esattamente quello che ho pensato io.»
Il medico legale si appoggiò allo schienale.
«Dobbiamo tornare laggiù.»
«Già.»
«Se quella...» Indicò le ossa che tenevo sul palmo. «Se quella mano è recente, chiunque l'abbia sepolta, potrebbe voler concludere un po' meglio il suo lavoro.»
«E magari adesso sta cercando una pala.»
«Domani?»
Annuii.
Larabee prese il telefono. «Non potrebbe essere una vecchia tomba non indicata?»
«Tutto è possibile.»
Non ci credevo.
Joe Hawkins mi accompagnò all'Annesso.
Ryan si era messo comodo e stava guardando una replica di I love Lucy. Nel programma della giornata doveva aver incluso un po' di shopping, perché esibiva un paio di calzoncini scozzesi e una maglietta che recitava: BIRRA: MAI PIÙ SOLO A COLAZIONE. Il viso era leggermente abbronzato, ma le gambe avevano il colore di un pesce persico crudo.
Boyd stava pisolando nel suo angolo di divano.
Sul tavolino notai una Heineken vuota e una ciotola con qualche patatina. Sul pavimento c'era una ciotola vuota.
Quando spuntai sulla porta, mi sentii scrutare da quattro occhi. Birdie stava facendo il broncio in qualche angolo segreto.
Boyd saltò sul pavimento.
«Bonsoir, madame le docteur.»
Mi lasciai scivolare borsetta e portadocumenti dalla spalla.
«Brutta giornata?» domandò Ryan.
Annuii. Poi sorrisi. «Spero che la tua sia stata migliore.»
«Io e Spugna siamo andati al King's Mountain.»
«Al parco nazionale?»
«Laggiù gli inglesi hanno preso una bella batosta dagli yankee, giusto, bella puledra?» Grattò le orecchie di Boyd. E Boyd appoggiò il mento sul petto di Ryan.
Mentre io ero immersa fino ai gomiti nella carne putrida, quei due si erano dati alle ricerche storiche. E va bene. Almeno qualcuno si era divertito.
Ryan si mise in bocca qualche patatina. Gli occhi seguirono il suo palmo.
«Spugna ha fatto morire di paura qualche scoiattolo.»
Mi avvicinai al divano. Ryan abbassò le gambe, e io mi lasciai cadere nel posto che Boyd aveva liberato.
Boyd annusò la ciotola delle patatine. Io cercai di allontanarlo e il cane mi fece il giochetto delle sopracciglia.
Sullo schermo del televisore, Lucy ed Ethel si erano nascoste in un armadio e cercavano di togliersi gli abiti da lavoro. Lucy stava dicendo a Ethel di non dire niente a Ricky.
«Ma perché questa donna non può lavorare in santa pace?» domandò Ryan.
«Perché Ricky non vuole.»
Ripensai a Ricky Don Dorton.
«È saltato fuori che il Cessna appartiene a un gestore di locali notturni della zona, che a tempo perso probabilmente è anche un trafficante di droga.»
«E chi sarebbe?»
«Non ha importanza.» Non avevo voglia di sentire i suoi commenti sul nome di un figlio del Sud. «L'aereo era pulito, e non lo pilotava il proprietario.»
«Quindi l'aereo del bravo cittadino è stato rubato.»
«Già.»
«Odio quando succede a me.»
Finsi di colpire Ryan al petto e lo guardai come per dire: «Ti prego...».
«Chi c'era a bordo?»
«Non lo so. Il perito dell'NTSB sta lavorando insieme alla polizia. Verificheranno tra le persone scomparse e poi inseriranno i dati nel database dell'NCIC.»
Ryan trattenne un sorriso.
«Ma queste cose le conosci già.» Mi grattai la puntura di una zanzara sul gomito. «Ho una brutta notizia.»
Boyd spostò il mento sul mio ginocchio.
«Ricordi le ossa di animale di cui ti avevo parlato?»
«Sì.»
«Le ha scovate il nostro Rin Tin Tin. Erano sepolte fuori città, vicino a una fattoria. Ero abbastanza sicura che fossero ossa di animale, ma le ho portate all'Istituto per sicurezza. E ho trascorso gran parte della domenica ad analizzarle.»
Lucy si era seduta sul sedere. Ethel cercava di sfilarle la tuta senza toglierle le scarpe.
«E allora?» mi sollecitò Ryan.
«Oggi ho trovato un paio di ossa umane.»
«Mischiate con le altre?»
Annuii.
«Quindi domani sarà un'altra grande giornata, mi par di capire.»
«Purtroppo sì. Ascolta, mi dispiace moltissimo. Lo sai quanto preferirei stare con te.»
«E con Spugna.» Ryan spostò lo sguardo sul cane, poi di nuovo si di me.
«E con Spugna.» Accarezzai la testa di Boyd. «A proposito, sei veramente gentile a occuparti di lui.»
Ryan sollevò le mani e le sopracciglia come per dire: «C'est la vie».
«Se Spugna ha scoperto un omicidio, di certo non vorrai permettere che il delinquente abbia il tempo di occultare la sua vittima, giusto?»
Boyd si spostò su Ryan.
«Giusto» concordai. Con l'entusiasmo che in genere riservo al pap-test e agli esami rettali.
«Quindi fai quel che devi fare.»
«Giusto.»
Ryan ovviamente cercava di non mettermi in difficoltà. Ma io mi sentivo in trappola, bloccata in città come un insetto sulla carta moschicida.
Mi sporsi in avanti, inarcai la schiena e ruotai la testa. Qualcosa mi scrocchiò nel collo.
Ryan si fece più vicino.
«Voltati.»
Ubbidii.
Ryan iniziò a massaggiarmi le spalle con un movimento deciso e circolare.
Chiusi gli occhi.
«Mhmm.»
«Troppo forte?»
«Hmm uhm.» Fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto fossi tesa.
Ryan mi passò il pollice lungo il bordo delle scapole.
Un piccolo gemito mi salì in gola. Lo soffocai.
I pollici di Ryan si spostarono alla base del collo.
Oh Dio.
Salirono sulla nuca.
Oh mio Dio.
Scesero di nuovo sulle spalle, lungo i muscoli ai lati della colonna.
Un grande gemito.
Dopo qualche secondo la mano si sollevò e sentii il cuscino del divano cambiare forma.
«Ascolta il mio piano.»
Aprii gli occhi.
Ryan si era appoggiato allo schienale, con le mani intrecciate dietro la testa. La ciotola delle patatine era vuota. Boyd aveva ancora le briciole sul muso.
«Ti porto fuori a cena.»
«Niente da dire. Dove?»
«È la tua città. Decidi tu.»
Un'ora dopo, Ryan e io sgranocchiavamo una bruschetta al ristorante La Toscana. Era una perfetta serata stile Hollywood, con tanto di luna piena.
La Toscana era una trattoria nascosta fra i tanti locali di una zona del parco riservata a caffè, terme e negozietti dove l'élite di Charlotte si ritrovava per sorseggiare vini pregiati, avvolgersi nel fango, e comprare bandane per i propri cani.
Mentre gli altri locali sono un po' troppo speciali per il mio budget, di tanto in tanto frequento La Toscana, soprattutto nei mesi in cui si può cenare all'aperto. Questa trattoria e Volare sono i miei locali italiani preferiti, e sono praticamente equidistanti da Sharon Hall. Quella sera optai per La Toscana.
Ryan e io sedemmo a un piccolo tavolo di ferro battuto nel cortile acciottolato del ristorante. Alle nostre spalle, una fontanella tintinnava sommessamente. Alla nostra sinistra, un coppia discuteva di mare e montagna. Un trio di donne alla nostra destra chiacchierava di tornei di golf.
Ryan sfoggiava un paio di Dockers e una camicia perfettamente stirata color fiordaliso, esattamente come i suoi occhi. Il viso era leggermente abbronzato per la gita al King's Mountain, i capelli ancora bagnati dopo la doccia.
Era bello.
Molto bello.
Ma nemmeno io ero da buttare.
Prendisole nero di lino mozzafiato. Sandali. Segretissimo perizoma delle grandi occasioni.
Negli ultimi giorni avevo visto troppi cadaveri e troppa morte. Avevo preso una decisione. Come la mia scollatura, mi sarei concessa un po' di vertigini.
«In North Carolina qualcuno gioca a golf?» domandò Ryan, mentre un cameriere in giacca bianca ci passava un gigantesco menù.
«È una legge dello Stato.»
Il cameriere indagò le nostre preferenze in fatto di cocktail. Ryan chiese un Sam Adams. Io ordinai Perrier con limone. Nascondendo a stento la sua delusione, il cameriere si ritirò.
«Tu lo fai?»
Guardai Ryan. Lui sollevò lo sguardo dal mio petto ai miei occhi.
«Tu giochi a golf?»
«Ho preso qualche lezione.»
A dir la verità non facevo un tiro da anni. Il golf era una cosa legata a Pete. Quando ho lasciato mio marito, ho lasciato anche il golf. In genere mi davano un vantaggio di almeno quarantadue punti.
La donna alla nostra destra si vantava di aver vinto almeno sei partite con il numero più basso di colpi.
«Ti andrebbe di giocare un po'?» domandai.
Visto che Pete e io non eravamo ancora divorziati, tecnicamente ero sempre sua moglie, e quindi potevo utilizzare le strutture del Carmel Country Club.
Ma perché poi non avevamo mai divorziato? Me lo ero domandata centinaia di volte. Pete e io ormai eravamo separati da anni. Perché allora non tagliare definitivamente il cordone ombelicale?
Era un cordone?
Non è il momento, Brennan.
«Sarebbe divertente» disse Ryan, posando la mano sopra la mia.
Decisamente, non era il momento.
«Anche se, certo, a Spugna non piacerebbe essere tagliato fuori.»
«Si chiama Boyd.» Dalla mia voce, sembrava che avessi respirato elio.
«Spugna deve imparare a godere la serenità della sua bellezza interiore. Magari potreste iniziarlo alla pratica dello yoga.»
«Ne parlerò a Pete.»
Il cameriere tornò con i nostri drink e ci illustrò il menù. Ryan ordinò il branzino, io scelsi vitello al marsala, facendo ben attenzione a non spostare la mano dal tavolo.
Quando il cameriere si allontanò, la mano di Ryan tornò sulla mia. Sul viso gli lessi un misto di preoccupazione e di confusione.
«Non sei nervosa per domani, vero?»
«No» dissi con disinvoltura.
Davvero, no.
«Mi sembri tesa.»
«No, sono solo delusa per la nostra vacanza al mare.»
Ryan camminò con le dita sul mio braccio.
«Pensare che ho aspettato tutti questi anni per vederti con il costume a perizoma.»
Le sue dita scesero di nuovo sulla mano.
«Ci andremo, al mare, vedrai.»
Non so se la pelle d'oca degli altri brucia. La mia sì.
Mi schiarii la gola.
«Ci sono un sacco di tombe non segnalate in queste vecchie fattorie. Quelle ossa probabilmente erano sottoterra dai tempi in cui Cornwallis è passato a Cowans Ford.»
In quel momento il cameriere portò le nostre insalate.
Durante la cena, cambiammo argomento, parlando di tutto tranne che di noi e del nostro lavoro. Non una parola sulle ossa. Nessun riferimento all'indomani.
Nessun riferimento a quella notte.
Quando arrivammo al tiramisù e al caffè, erano già passate le undici.
Spugna/Boyd ci aspettava sulla porta dell'Annesso. Quando presi il guinzaglio, iniziò ad abbaiare e a saltare per la cucina.
«Spugna sa apprezzare le piccole cose» disse Ryan.
Ancora una volta, gli feci notare che il cane si chiamava Boyd.
«Ed è molto flessibile» aggiunse Ryan.
La notte profumava di petunie e di erba tagliata. Una brezza leggera agitava le pervinche. Un milione di grilli suonavano una sinfonia estiva sullo sfondo.
Boyd ci portò da un albero all'altro, coda e naso impegnati nella ricerca di uccellini o scoiattoli. Ogni pochi secondi balzava verso di noi, come per ricordarci di non perderlo di vista.
Ma io non pensavo certo a lui. La mia testa era già al conto alla rovescia.
Rientrati a casa, Boyd andò dritto alla sua ciotola, trangugiò un'enorme quantità d'acqua, soffiò aria come una balena e crollò sul pavimento.
Riappesi il guinzaglio al suo posto e chiusi la porta. Mentre inserivo l'antifurto, sentii il tepore del corpo di Ryan a pochi centimetri dal mio.
Con una mano, Ryan mi prese il polso e mi voltò verso di lui. Con l'altra spense la luce. Sentii il suo dopobarba, e l'odore del cotone, misto al profumo del suo sudore.
Poi si avvicinò, e mi posò la mano sulla sua guancia.
Lo guardai. Il suo viso era circondato dalla penombra.
Ryan mi sollevò anche l'altra mano. Le mie dita sfiorarono i lineamenti che conoscevo da almeno dieci anni. Gli zigomi, un angolo della bocca, la curva della mascella.
Ryan mi accarezzò i capelli. Le sue dita scivolarono fino al collo, si spostarono sulle spalle.